di Gianfranco galiè

SAN BENEDETTO DEL TRONTO – L’orologio batte le 14.30 del 25 agosto e sono appena tornato dall’Ospedale della nostra città dove avevo accompagnato mia moglie alle 8 di questa mattina per rimuovere un gesso ad un piede. Vorrei raccontare questa mattina di ordinaria umiliazione (mi dicono che è sempre così), soprattutto nella sua parte finale, non tanto perché coinvolto in prima persona, ma soprattutto perché ha riguardato tante altre persone.
Ed anche perché ritengo che le lamentele fini a se stesse, addirittura i litigi fra poveracci in attesa, debbano avere un loro percorso finalizzato al miglioramento di un servizio e all’assunzione di una responsabilità e non ridursi ed esaurirsi in semplice e rassegnata accettazione dello status quo.
Ma andiamo con ordine. Alle 8, preso il talloncino numerico del proprio turno, attendiamo la rimozione del gesso. Tutto procede in tempi e modi accettabili.
Si deve andare ora alla prenotazione dei raggi non senza aver prima pagato il ticket per tutte le operazioni, e a quell’ora l’attesa media è di una mezz’oretta. Ok. Nulla di cui lamentarsi, la gente è tanta e ovviamente i tempi di attesa sono quelli che sono. Poi si è ancora freschi e fiduciosi. L’accettazione, prese le carte necessarie, ci indirizza al settore giusto per la radiografia.
Qui le cose cominciano ad appesantirsi sia per la moltitudine dei pazienti sia per la mancanza di un talloncino numerico sicché l’attesa è assai lunga e soprattutto non gestibile. Voglio dire che non potendo sapere quando è il proprio turno – bisogna attendere la chiamata nominativa da parte della tecnica di radiologia – si è nella impossibilità di allontanarsi per un caffé o una visitina al bagno. A meno che non si abbia un parente o un amico a disposizione che raccolga la chiamata. Comunque, fatta la radiografia, dopo questa lunga tappa, si torna all’accettazione e si attende il referto medico. A noi è andata bene – una mezz’oretta di attesa. A qualcun altro, meno bene perché, dopo due ore, non si trovavano i referti.
Siamo arrivati a metà mattinata e finora qualsiasi persona consapevole delle difficoltà di gestire un numero così elevato di pazienti non può che giudicare il servizio complessivo nei limiti della decenza (non di più, non esageriamo).
Tale persona è destinata ad essere smentita dalla tappa successiva che si può ben definire simile alla sosta in un girone dantesco. Siamo nel reparto di ortopedia. Reparto? Anche qui, non facciamoci prendere la mano da un eccesso di civile tolleranza. Siamo nello snodo di un corridoio, un bugigattolo naturale derivante da due angoli, dove per fortuna ci sono delle sedie ma non bastanti a tutti gli ignari (di ciò che li aspetta) e numerosissimi pazienti.
Leggo su un foglietto incollato sulla porta dell’ambulatorio che lì si riceve per: prime visite, controlli e rimozione gessi. Tutti insieme? Senza alcun smistamento? Mah. Cerco il distributore di numeri e lo vedo malinconicamente inattivo. Cerco pure, in preda ad un’iniziale turbamento, qualche elemento che mi faccia capire in base a quale criterio vengano chiamati i pazienti. Non esiste.
Non esiste neanche la possibilità della chiamata nominativa (come in radiologia) perché i dottori all’interno non hanno ricevuto alcuna comunicazione in merito a quelli che dovranno visitare. Allora – e al turbamento si somma l’ansia – dovremo metterci in coda artigianale. Ma chi è l’ultimo? Vallo a sapere, in quel caos e in quell’andirivieni di pazienti di tre tipologie. Siamo lì senza alcuna prospettiva di sapere quando sarà il nostro turno. Non avendo né la voglia né la forza di lottare per “un posto al sole”, ci accasciamo su una panchina, in attesa degli imprescrutabili eventi.
Dopo una oretta, mi prende un sussulto di dignità e vado chiedere lumi presso l’URP (Ufficio Relazioni con il Pubblico). Una gentile impiegata capisce dove voglio arrivare già prima che io sia a metà esposizione, si scusa a nome della Direzione Generale e mi fa vedere una lettera in cui si illustrano iniziative future per ovviare ai già straconosciuti problemi di quel reparto. A
bbastanza rincuorato dall’efficienza dell’amministrazione e dalla sua capacità di auto correzione, me ne torno alla panchina dell’abbandono. Quando verso le 13.40, un dottore si affaccia e ci fa capire che l’attesa si protrarrà al pomeriggio con i medici di turno, al turbamento e all’ansia si somma la rabbia e, buttata all’aria la bonaria accettazione del nostro destino infame di dannati della terra, mi precipito di nuovo nell’ufficio dell’URP per mettere nero su bianco quello che prima mi ero limitato ad esporre oralmente e rimango in attesa di una risposta.
Sollevando i medici in servizio – lodevoli per abnegazione di fronte a tale massacrante disorganizzazione del loro lavoro – da qualsiasi responsabilità, mi chiedo e chiedo pubblicamente, soprattutto al responsabile del Reparto il perché di tale situazione che offende e umilia la dignità di qualsiasi essere umano, ancor più se malato, e ogni logica di organizzazione del lavoro.
Gianfranco Galiè, 25 agosto 2009
Due cose verissime vorrei sottolineare che ritengo fondamentali nel racconto del nostro affezionato lettore: “E’ sempre così” e “sollevando i medici in servizio”. Perché purtroppo è sempre così ne nessuno si è mai preso la premura di dare un’organizzazione più efficiente sollevando i “poveri” medici e paramedici da problemi per i quali loro non hanno nessuna colpa. A me è capitato qualcosa di simile al pronto soccorso (dalle 19.30 alle 24.30) per una semplice lastra al ginocchio (a mio suocero malato e 83enne) ma ho preferito non raccontare la mia “odissea” perché anch’io ho indossato il camice bianco per lunghissimi 38 anni.