dal settimanale Riviera Oggi numero 770
SAN BENEDETTO DEL TRONTO – Una delle pagine più tragiche del ventesimo secolo e della Seconda Guerra Mondiale è senza dubbio quella della catastrofe del Corpo di Spedizione Italiano in Russia (CSIR) o Armata Italiana in Russia (ARMIR). Una vera e propria tragedia umana e storica, iniziata nell’estate del 1941 e terminata nella primavera del 1943, densa di atti eroici e disperati, che ha coinvolto migliaia di soldati italiani, inviati a combattere in un territorio ostile con mezzi assolutamente inadeguati. La maggioranza di quegli uomini non sono tornati in patria: solo pochi di essi sfuggirono al tormento del gelo e agli attacchi violenti dell’Armata Rossa che li incalzava durante la ritirata.
Esiste una considerevole letteratura sulle vicende legate all’Armir: ricordiamo una delle più note, “Centomila gavette di ghiaccio” di Giulio Bedeschi. Abbiamo avuto la fortuna di conoscere e parlare con uno dei sopravvissuti al fronte russo per raccogliere un’importante testimonianza: si tratta di Alceo Latini, croce di guerra al valor militare, residente a San Benedetto.
Con una memoria poderosa ricorda perfettamente l’avvio al fronte orientale. «A fine giugno del 1941 mi trovavo a Pesaro, ero assegnato a un reggimento ippotrainato di artiglieria leggera, equipaggiati con i cannoni anticarro modello 47/32. Io e gli altri compagni sapevamo con certezza di partire per l’Africa, anche perché i nostri mezzi, i camion e i vari autocarri, erano tutti mimetizzati kaki. A un certo momento però venne l’ordine di riverniciare in grigioverde tutto il nostro equipaggiamento. Dopo pochi giorni, tutto il reggimento partì per Udine. Colti di sorpresa e senza sapere la destinazione, iniziammo un lunghissimo viaggio in treno che ci portò in Cecoslovacchia».
Alceo e i suoi commilitoni ancora non sapevano che stavano per essere coinvolti in una delle più ambiziose operazioni militari della storia, l’attacco all’Unione Sovietica. Il 22 giugno 1941 le armate del Terzo Reich, circa 130 divisioni, 4 milioni e mezzo di uomini, migliaia di mezzi corazzati, avevano aperto un fronte immenso dal Baltico al Mar Nero. Nelle fasi iniziali dell’offensiva, i russi subiscono durissime sconfitte e numerosi accerchiamenti in cui vengono intrappolate intere divisioni. Le armate tedesche procedono a una velocità impressionante: le città degli stati baltici, della Bielorussia, cadono una dopo l’altra. Cavalcando l’ondata della superiorità germanica evidente nell’estate del ‘41, Mussolini decide di partecipare all’imminente vittoria contro Stalin, inviando al fianco dell’alleato tedesco l’VIII armata, prima comandata dal generale Messe e poi dal generale Gariboldi. Gli italiani vengono inviati a sostegno del Gruppo di Armate Sud della Wehrmacht in Ucraina e Russia Meridionale, proprio nell’area dove nell’inverno del ‘42 si combatterà una delle battaglie più violente della guerra: Stalingrado.
«Dalla Cecoslovacchia, dove la popolazione festeggiava al nostro passaggio nelle stazioni, ci dirigemmo in Polonia, a Lublino, poi in Bielorussia, a Minsk, e infine a Kiev. In tutte queste città sostavamo diversi giorni, ed erano già state prese dai tedeschi. Fu un viaggio interminabile che ci portò fino al fiume Dniepr. Gli ucraini erano molto ospitali, accoglienti e avevano dentro le loro povere case altari con immagini sacre. Questo perché la religione era stata proibita durante il regime sovietico e infatti molti di loro combatterono insieme ai tedeschi contro Stalin. La cosa che più mi colpì fu il paesaggio: sempre uguale a se stesso, pianure interminabili, di una grandezza a cui noi non siamo abituati. Se fai cento o duecento chilometri, il paesaggio non cambia, sembra che sei sempre nello stesso punto. Una terra vastissima, infinita».
Questo particolare concorda straordinariamente con le descrizioni di reduci del fronte russo, sia tedeschi che italiani. In seguito il reggimento ippotrainato durante l’inverno del 1941 fu stanziato nelle retrovie, a coprire l’avanzata tedesca che si era arrestata a causa del gelo intenso e dei contrattacchi sovietici. Nella tarda primavera del 1942, tutto il fronte orientale si muove verso est: il nuovo obiettivo è la città di Stalingrado e le immense risorse petrolifere del Caucaso. L’Ottava armata italiana deve assestarsi sul fiume Don e coprire il fianco settentrionale della Sesta Armata tedesca che punta verso Stalingrado. Alceo ricorda con precisione questo momento. «Nell’estate del 1942 arrivammo sul Don e per settimane costruimmo fortificazioni, trincee e postazioni difensive proprio davanti a questo grande fiume. Un lavoro intenso e pesante, ma l’ordine era quello di restare lì e prepararci all’inverno che a breve sarebbe arrivato. Intorno a noi c’erano delle foreste molto vaste, i tronchi degli alberi venivano tagliati e poi usati per costruire fortini, bunker, baracche. Già a ottobre in Russia la temperatura di notte poteva scendere sotto lo zero, e il freddo è inimmaginabile. I turni di guardia erano continui e venivano fatti per breve tempo, 20-30 minuti massimo, poi si effettuava il cambio. Questo per evitare il pericolo di assideramento».
«Più si andava avanti verso l’inverno più il freddo era intollerabile. Un altro grande pericolo poteva essere quello delle pattuglie russe di esploratori che in missioni notturne di ricognizione si avvicinavano alla linea del fronte sul Don per raccogliere informazioni e rapire soldati o ufficiali».
Ma oltre al temibile inverno russo, si stava avvicinando l’offensiva sovietica: nel novembre 1942 la Prima Armata delle Guardie di Vatutin preme sul Don per infrangere le posizioni italiane e cingere Stalingrado in un anello fatale.

(continua)